Maurizio Aprea
Seventies
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Maurizio Aprea
Seventies
Seventies – The path to a figurative ‘New Tale’ begins. Exhibitions of china drawings. New forces in the Academy and the collective exhibition on the art market. New materials and innovative techniques: plexiglass in collaboration with Filippo Avalle. The Radiopitture, works by Maurizio Aprea in plexiglass that recall “the images produced in the modern restoration phase, where, identified by different investigation techniques, several layers of a work emerge ”.
- INDIAN INK DRAWINGS
In the seventies the traditional figuration in painting and sculpture collapsed in Italy — even under the pressure of the social crisis —.
In the high-tech capital, a group of Milanese artists, and among them Aprea, are dedicated to the crisis and the re-proposal of the figure and the figurative story. […].
Their work tries to cope with the speed of development and mutation of reality, to support its representation.
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Comparison with reality, function of the work of art>>,
the meeting with Maurizio Aprea oscillates on these borders.
The scene opens on a historical and social condition of the artist which is loneliness[…].
The result is an original, intense artistic story that lights up and resolves with every work, with every work cycle. Alone – like others – he fights against the continuous attrition of the image. Alone he seeks a salvation between present and memory, creative language and absolute inhibition powers that advance […].
In Aprea also experiencing the presence of his grandfather Giuseppe, an academic painter but of great paintings. From him, from his traces, comes the belief that art has its general function and the artist has a particular destiny. ”
[Text in italics from the presentation of Piero Del Giudice to ’ article entitledFrom Tilacino to secular shroud in Galatea, April 2010, containing the interview conducted by Del Giudice to Maurizio Aprea in 2008].
Exhibitions are organized in Milan, Naples, Rome, Florence of the eleven painters who – invited – offered and published an interpretative drawing of the poems of the book Colloqui di ombre by Walter De Colò. They are “authentic masters ” and young painters, among the latter – writesPaolo Perrone – “Maurizio Aprea, the youngest of all. Leaving the Milanese Brera Academy, Aprea is a pure and spontaneous talent to follow; keen designer in the context of a vibrant existential translation”.
1975: Presentation of the young Maurizio Aprea and three of his indian ink drawings on the pages of the magazine Cultura e Costume – founded by Paolo Perrone – active in those years and for many subsequent years in promoting conference debates exhibitions, ecc.
Rear cover of Exibition’s catalogue Review of teachers and young people from a book of poems, at the Pinacoteca Gallery in Rome in 1975.On the initiative of theNuove Edizioni Culturali and of the magazine Cultura e costume of Milano.
“ “ …In those years –the seventies – I saw the Academy at the end of its nineteenth-century phase. Then, after a moment of bewilderment,new forces took over that saw artistic teaching as an opportunity to connect with life, with the outside […]. Among these new professors I remember Davide Boriani – he taught media – and among other things he organized, in 1973, a collective exhibition where the theme and the works were focused on the functioning of the art market through a series of investigations: interviews with gallery owners, artists, critics, all put on display atCentro San Fedele. One thing came out strong enough and really innovative for those years […]. I had a couple of years parenthesis at Dams in Bologna – Umberto Eco, Squarzina – eventually I gave the last exams to the Academy. I graduated in sculpture.
La ricerca ‘sull’ uso di nuovi materiali e tecniche visive nuove o aggiornate’. L’incontro con Filippo Avalle.
“Mi hanno sempre attratto quel tipo di materiali che hanno la possibilità di essere “sommati”. In pittura mi piace l’acquarello, è trasparente e una velatura non nasconde la precedente […].
Era il 1976, stavo concludendo l’Accademia, un giorno trovo un biglietto appeso “artista Filippo Avalle cerca un collaboratore per realizzare una grande opera in plexiglas”. Il plexiglas, allora, non poteva che attrarmi. Telefono ad Avalle e vado a vedere questo lavoro. Era fuori dal comune per quei tempi: un grande prismoide in plexiglas, una grande scatola che si apriva nel piccolo studio […]. Subito mi colpisce il personaggio e il lavoro. Avalle era completamente preso dall’opera e per portarla a termine avrebbe fatto qualsiasi cosa.
Mi trovavo di fronte alla forza di un grande progetto, ad una determinazione unica a realizzarlo, e anche a una impressionante capacità manageriale. Un’opera molto impegnativa dal punto di vista costruttivo: un grande contenitore, un diaframma in plexiglas, un prisma che si intitola Halma opera labirinto […]. Tutto quello che era costruito all’interno doveva essere visto attraverso il diaframma, la scatola incernierata su un telaio in legno che veniva aperto centinaia di volte al giorno… C’era un lavoro, c’era un’opera, c’era un artista che aveva una esperienza più grande della mia soprattutto rispetto a certe tecniche con materiali come il plexiglas. È un materiale che ha grandi peculiarità, lo si rende opaco e lucido, opaco e trasparente, si crea subito questa dialettica, il riflettente e il satinato, si possono controllare queste peculiarità opposte, e poi lo “sfondamento”, l’andare al di là della bidimensionalità […]. Mi sono trovato presto coinvolto anche nella parte progettuale dei lavori. Era tutto un susseguirsi di idee, annotazioni, scambi, discussioni, sempre in questo piccolo negozio. Lui pensava ad una bottega in senso forte, dove convogliare più conoscenze — un po’ l’ idea della bottega rinascimentale. Dopo Labirinto è stato Incendio a Beaubourg […] Incendio a Beaubourg rompe lo spazio tradizionale del museo attraverso lo scontro di stili e pratiche artistiche diverse […]. Abbiamo esposto quest’opera, fuori da qualsiasi controllo, sul sagrato del Duomo di Milano, con grande successo di un pubblico completamente al di fuori da frequentazioni di musei e mostre. Dopo il Beaubourg viene La feroce — così gli operai chiamavano la Fiat. […] Lavorando su queste opere abbiamo cominciato a vederle come corpi, corpi che si aprono hanno quartieri che funzionano come organi. Da lì la necessità di affrontare la rappresentazione di un corpo umano […]. Dopo un anno di disegni fatti gomito a gomito — io mi occupavo di una parte, lui dell’altra — è cominciata la realizzazione di questo corpo-personaggio con una tecnica tra la pittura e la scultura. Non ho visto il lavoro ultimato, la mia vita era cambiata, avevo cominciato ad insegnare e poi la nostra collaborazione non funzionava. Facevo delle cose ma era come se fossi invisibile, più diventava importante il mio ruolo e più prevaleva l’autore più importante, cioè Avalle.” […]
Primi anni Ottanta – La rappresentazione “per molteplici punti di vista”: Le Radiopitture, Opere di Maurizio Aprea in plexiglass ispirate alle “immagini prodotte in fase di moderno restauro, dove, individuati da diverse tecniche di indagine, affiorano più strati di un’opera…”.
“Per me qualsiasi tecnica deve essere metabolizzata, deve agire insieme al resto, deve rientrare in una elaborazione linguistica. […] [Uso] tutte le tecniche che partono dall’ umor vitreo, primo elemento della percezione […]. Tutto ciò che mi dà la possibilità di vedere la somma degli interventi sulla materia, tutto ciò che mi dà la possibilità di raccontare, come svolgere una matassa, non in percorso a tappe lineari, ma per tagli trasversali, affiancamenti, sovrapposizioni, aggiunte di altri materiali. L’anamorfosi, l’ologramma, l’incisione, la tintura, i bagni di colore… […]. Spento-acceso.
Nella nostra vita c’è la luce e c’è il buio, il giorno e la notte. I miei lavori, se visti alla luce del giorno, diventano altre cose, si smaterializzano, diventano trasparenti, non hai più quel rapporto tra i colori, cromatico, hai altro. La luce artificiale, le lampade, hanno un senso molto definito e stretto. […] Lì [nelle Radiopitture, n.d.r.] la lampada è dietro, la lampada illumina uno strato, in trasparenza; la lampada si trova dietro una lastra opalina. E’ come nel diafanoscopio – la lampada che viene usata in medicina per vedere le radiografie. Lavoro su questo tipo di immagine, di idea. Voglio che il quadro non sia visto solo sulla sua superficie, sulla sua parte più apparente, ma contemporaneamente in tutti i suoi strati. Vedere i “pentimenti” sotto – così si chiamano i ripensamenti del pittore – vedere quello che è stato cambiato dare uno spessore, un peso e una materialità, dove tutto sia decifrabile, tutto ricostruibile pur rimanendo sempre una zona di mistero, E’ un po’ come se si stesse aggirando l’ opera in tutte le sue possibilità di illuminazione: radente, davanti, di dietro, sopra. Costruire una interferenza di luce in cui si vuole dipingere, scrivere.“.
[Testo in corsivo dalla narrazione di Maurizio Aprea nella intervista condotta da Piero del Giudice nel 2008 e pubblicata sul numero di aprile 2010 di Galatea. L’intero testo dell’ intervista è presente su questo Sito in Biografia ]